sabato 23 agosto 2008

Pechino: record dell’indifferenza o lezione di stile?

Oggi ascoltavo A tempo di olimpiadi, il programma condotto da Carlo Genta su Radio24 per i giochi di Pechino. Un telespettatore intervenuto con un’e-mail faceva notare come, su 4000 atleti, a nessuno fosse venuto in mente di accennare il benché minimo gesto di rimostrazione nei confronti del governo cinese e dei suoi continui attentati ai diritti umani.
Sono lontani i tempi di Jesse Owens, che fece impallidire Hitler nella sua Berlino, o di Carlos e Smith che alzarono i pugni contro la discriminazione razziale della più grande democrazia contemporanea, gli U.S.A.
Ma proprio perché quei tempi sono lontani non me la sento di accodarmi a quanti, Ministro della Difesa della Repubblica Italiana in primis, chiedono agli atleti un gesto, una parola, un afflato, contro la Cina o a favore del Tibet. Che senso avrebbe oggi un gesto del genere? A cosa servirebbe se non a riempire per qualche giorno prime pagine di giornali e bocche dei politici poco e mal fornite dai rispettivi cervelli?
Trenta anni fa ed ancor di più negli anni trenta e quaranta, c’era qualcosa che andava al di sopra di tutto, in ogni momento, quanto meno nella cultura mondiale: l’ideologia. Owens che fa scintille sotto gli occhi di chi lo avrebbe volentieri ficcato in un forno crematorio non era un semplice gesto fatto su commissione del Signor La Russa, ma era una pietra miliare nel pensiero di milioni di persone. Milioni di persone che vivevano un cambiamento basato sulla politica, sulle visioni del mondo e dovevano scegliere, nel profondo dell’animo, da che parte stare. Essere Don Camillo o Peppone, Keynes o Hayek, Nazionalsocialista o democratico, di destra o di sinistra, nero o bianco. Ogni pugno alzato, ogni vittoria segnava un punto a favore di uno dei due schieramenti ferocemente contrapposti, qualunque essi fossero. Il mondo si divideva sempre in due. L’ultimo grande epilogo di questa storia novecentesca fu il miracolo dei giovani universitari americani dell’Hockey su ghiaccio, i quali vinsero l’oro nel 1980 contro i professionisti sovietici, ma già Rocky Balboa ed Ivan Drago, qualche anno dopo, avrebbero dato segnali di distensione.
Oggi il mondo, come insegnano libri ormai già abbastanza vecchiotti (non abbastanza da essere capitati in mano ai politici italiani) è fluido e mutevole. I blocchi si sono disciolti in mille idee che portano ognuna l’acqua al proprio mulino, al punto che i grandi laghi si sono prosciugati (per fortuna, aggiungerei). Oggi ognuno di noi cammina con un bicchiere in mano nel quale porta la propria identità, se lo beve e lo riempie alla fontanina successiva.
Che senso avrebbe in questi anni, un pugno alzato o una vittoria della Russia sugli U.S.A.? Il simbolo dei nostri anni è Bolt che danza dionisiaco dopo l’oro conquistato, celebrando sé stesso, inebriandosi della propria individualità fuori dal comune, piuttosto che di un non meglio definito black power, o di un ancor meno comprensibile concetto di democrazia.
I bacchettoni del CIO lo hanno richiamato all’ordine, i bacchettoni della politica italiana volevano il gesto dagli atleti contro la Cina, l’abbraccio tra un’atleta georgiana ed una russa, in piena guerra tra i due stati, è passato in cavalleria. L’unica, vera cartolina umana di questi giochi olimpici all’epilogo.

giovedì 21 agosto 2008

Anna Tatangelo al Trofeo Moretti

Ma è possibile che non appena il Comune di Napoli conceda una struttura o uno spazio pubblici "debbano" per forza presenziare D'Alessio o la sua fidanzata??

Il solito grande Severgnini su Mao ai tempi nostri

Musical maoista al confine della città dei giochi - Corriere della Sera.
Hongse Jindian vuol dire “libretto rosso”. Nome impeccabile, per un musical maoista a Pechino. Mentre andiamo verso est, tagliando le circonvallazioni, immagino un ristorante per turisti, segnalato dagli sponsor olimpici, pieno dei soliti delegati carburati a birra Yangjing, con l’immancabile network americano che riprende la scena: il rosso, in Tv, funziona. Niente di tutto ciò. Questi fanno sul serio.

Il locale si trova oltre il quinto anello, ai bordi di una città simile a quella che avevo conosciuto vent’anni fa: la metropoli che si sfrangia nei campi, case nel verde impolverato, uomini che fumano in canottiera, bambini in bicicletta, barberie con le luci al neon, piccoli negozi e grandi depositi. Il "Libretto rosso" è nascosto in una strada a fondo chiuso. L’ingresso è attraverso una stella rossa.

Dentro, un avvertimento - niente foto, niente riprese - e dipinti rivoluzionari: la solita ragazza con le trecce davanti alla Porta della Pace Celeste; i ritratti di Marx, Engels, Stalin e Lenin; Mao Dsedong di fianco a una bandiera. La sala è unica, con una balconata intorno; in fondo un palcoscenico, dove ragazzi e ragazze vestiti da Guardie Rosse intonano Ge Chang Mao Zhuxi (“Cantiamo il presidente Mao”). La gente, euforica, smette di mangiare e canta con loro. Perfino Adele Lobasso, che vive a Pechino e ha avuto l'idea di venir qui, sembra sorpresa. Luisa Prudentino, che studia in cinema cinese, è divertita. “Tutti maoisti?”, chiedo a Zhang Na, la collega cinese che ci ha seguito fin qui. “Ma no, erano le canzoni che cantavamo all’asilo.”
BJ-JO2008 082.jpg
Affronto il “cibo collettivo” comparso sul tavolo, e penso a come si diverte la storia: Mao, condannato dalla politica, è stato salvato dall’estetica. Deng Xiaoping negli anni ‘70 ha denunciato la follia della Rivoluzione Culturale, e la Cina di oggi è figlia di quella svolta. Ma Deng è un nome, Mao è un marchio. Il ritratto del Grande Timoniere sfida il tempo e i turisti in piazza Tiananmen; cartoline e spille sono dovunque. L’iconografia del maoismo regge la sfida del secolo nuovo. C’è qualcosa d’impeccabile, stasera, nelle piccole cameriere rosse che servono il temibile hu bing, pizza tradizionale coperta di germogli di aglio.

Al nostro tavolo è addetta Wang Xiao. Viene dal Hebei, la regione intorno a Pechino. Dice d’avere 17 anni, ne dimostra meno. Sorride, abbassa gli occhi. Ma ogni tanto si trasforma. Interrompe il servizio e partecipa alla coreografia: sale su una sedia e scandisce slogan rivoluzionari. Nella confusione, riprendiamo qualche scena. Un cameriere se n’accorge e prova ad arrabbiarsi; ma basta far sparire la macchina, e ributtarsi sul “brasato di carne alla Mao".
Wang Xiao.jpg
Un cliente cinese sale sul palco, e chiede di cantare una canzone popolare “per la gloria della nazione impegnata nelle Olimpiadi”. Dopo il musical, il karaoke. Vorrei domandare: “Mao l’avrebbe consentito?”. Ma non c’è tempo. Le tovaglie rosse si alzano come bandiere, ed è tempo di tornare nella città dei Giochi.

Straordinario articolo da Limes sulla Russia di Putin

Via Limes.it

Se Mikheil Saakashvili non esistesse, Vladimir Putin dovrebbe inventarlo. Pare che nelle prime ore di guerra il padrone della Russia non credesse alle sue orecchie: lo sconsiderato arcinemico georgiano era finito con entrambi i piedi nella trappola sud-ossetina, sfidando Mosca sul terreno militare. In pochi giorni, Putin ha non solo ripreso il controllo dell’enclave contesa, ma minaccia di ridurre l’intera Georgia ad entità virtuale. Soprattutto, ha inflitto una sonora lezione agli Stati Uniti. Per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica, l’impero russo è all’offensiva. La guerra di Georgia non ha solo un formidabile impatto regionale, ma contribuisce a riscrivere gli equilibri globali così come sembravano essersi consolidati alla fine dello scorso secolo. Vediamo.

Durante la guerra fredda, l’obiettivo strategico degli Stati Uniti era di impedire che l’Europa occidentale cadesse sotto l’influenza russo-sovietica. Quasi vent’anni dopo aver sconfitto l’Urss, gli americani scoprono che russi ed europei occidentali – tedeschi, francesi e italiani in testa – non sono mai stati tanto vicini. Non solo gas e petrolio. Berlino, Parigi e Roma considerano Mosca parte integrante dell’equilibrio continentale. Dunque rifiutano di costruire una coalizione anti-russa in Europa, come vorrebbero i “falchi” di Washington, guidati da Cheney e McCain. E come sognano le piccole e medie nazioni dell’Europa centro-orientale, filoamericane e russofobe (oltre che euroscettiche, salvo quando si tratta di incassare i soldi di Bruxelles). Una frattura che attraversa l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea. Divide l’Occidente. Anzi, ne avvicina una parte fondamentale alla Russia.

Una tendenza percepibile da tempo, ma che la guerra di Georgia ha reso esplicita. Sarkozy è stato prontissimo a volare a Mosca e a Tbilisi, appena ha capito che la partita sul terreno era decisa, almeno in questa fase. Contrariamente alle apparenze, il leader francese non è stato un mediatore, ma il notaio della vittoria russa e della sconfitta georgiana. Soprattutto, dell’impotenza americana. Il “piano di pace” francese ha semplicemente certificato il risultato sul terreno. Tbilisi può scordarsi Ossezia del Sud e Abkhazia. Mosca si vede riconosciuto di fatto il diritto a una sfera d’influenza pancaucasica. Putin provvederà poi, imbaldanzito dal successo, a interpretare in modo estensivo questo “piano di pace”. Come si osserva a Parigi, Berlino e Roma, dopo la batosta la Georgia è molto più lontana dalla Nato. E con essa l’Ucraina, l’altra grande perdente dello scontro per l’Ossezia meridionale.

La Francia ha agito a nome dell’Unione Europea, in quanto presidente di turno. Ma non per conto di tutti. A parte i classici distinguo britannici, nella tragedia georgiana polacchi e baltici si sono smarcati dagli euroccidentali. Mentre Sarkozy avallava il trionfo russo, i presidenti di Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, accompagnati dal collega ucraino, volavano a Tbilisi per solidarizzare con lo sconfitto. Denunciando l’”imperialismo” e il “revisionismo” di Mosca. Così certificando l’esistenza di almeno due Europe nell’Unione Europea e nella Nato. Quella più aperta alle ragioni e agli interessi di Mosca, della quale l’Italia di Berlusconi rappresenta paradossalmente l’ala più estrema – il nostro leader passa per “amerikano”, ma quando si tratta di scegliere fra Bush e Putin inclina per il secondo. E quella antirussa, guidata dal “gemello” polacco Lech Kaczynski e dall’estone-americano Toomas Hendrik Ilves, per cui non ci sarà pace in Europa finché esisterà la Russia. Si può immaginare che cosa sarebbe successo se la cabala della rotazione avesse assegnato a uno di loro la presidenza dell’Ue.

Era questa l’Europa, era questo l’Occidente per cui gli Stati Uniti si sono battuti nella guerra fredda? Certamente no. L’America non aveva spinto l’Urss al suicidio per ritrovarsi di fronte un impero russo assetato di rivincita, deciso a riconquistare almeno parte dei territori persi nella “catastrofe geopolitica” (Putin) del 1989-91 e capace di strutturare un solido rapporto con l’Europa occidentale. Valeva la pena per gli Usa scambiare satelliti come Bonn (oggi Berlino) e Roma – per tacere del contrastato ma fruttuoso rapporto con Parigi - con Tallinn, Riga e Vilnius, dove l’ambasciatore americano è l’autorità suprema, almeno quanto da noi negli anni Cinquanta? O anche con Varsavia, Kiev e Tbilisi?

La “Nuova Europa” evocata da Rumsfeld ai tempi della campagna irachena sta procurando a Washington più problemi di quanti ne risolva. Il caso georgiano è esemplare. Saakashvili si considera più americano di molti americani. Bush lo ha sostenuto e armato per servirsene come spina nel fianco del colosso russo, in un’area strategica per i corridoi energetici. A cominciare dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e dall’assai futuribile gasdotto Nabucco, entrambi di dubbio senso economico ma concepiti come leve geopolitiche per aprire vie alternative a quelle russe nelle esportazioni di greggio e di gas caspico-centrasiatico verso l’Europa. Ma i georgiani hanno sovrainterpretato l’appoggio americano. Hanno voluto vedervi – o è stata loro fatta vedere - luce verde per la riconquista del loro microimpero caucasico, da estendere a popoli refrattari a Tbilisi, come i sud-ossetini.

Nel gioco delle ingenuità e manipolazioni reciproche, alla fine, come nel caso del Kosovo, è stata la coda a muovere il cane. Se però gli albanesi dell’Uçk usarono magistralmente la Nato contro la Serbia, i georgiani – o almeno il loro avventuroso condottiero – si sono illusi di godere della protezione americana contro Putin. Nessuno a Washington è pronto a scatenare la guerra alla Russia in nome dei diritti della Georgia.

Nel crepuscolo di Bush, la balbettante risposta americana alla guerra russo-georgiana riflette il vuoto strategico di questa amministrazione. Oscillante fra l’ammiccamento a Putin e il tentativo di sancire via allargamento della Nato la definitiva liquidazione di qualsiasi sfera d’influenza russa in Europa. Un zigzag pericoloso, che ha prima terrorizzato la Russia con l’avanzata della Nato verso le sue frontiere, con la rivoluzione delle rose in Georgia e soprattutto con quella arancione in Ucraina. Salvo poi scatenarne la prevedibile reazione. Ora anche militare. Minacciare l’esclusione della Russia dal G8 e inviare aiuti umanitari ai georgiani su navi militari a stelle e strisce può forse giocare in chiave di campagna elettorale repubblicana contro il “morbido” Obama. Certo non spaventa Putin. Convinto di poter contare anche sui partner della “Vecchia Europa”.

Al prossimo presidente di compiere la scelta che Bush, dopo Clinton, non ha saputo osare. L’alternativa è fra accettare la Russia come fattore imprescindibile dell’equazione di potenza in Eurasia, oppure aderire alla convinzione polacco-baltica, ma anche ucraina e georgiana, per cui la vittoria nella guerra fredda non significava solo abbattere la cortina di ferro, ma spostarla quanto più a ridosso di Mosca possibile. Isolando e distruggendo una volta per tutte l’impero russo, vocato all’espansione a mano armata. Entrambe le scelte hanno dei costi. La seconda difficilmente potrebbe evitare una guerra, o una serie di guerre nel cuore del nostro continente. Perché la Russia non si suiciderà come l’Urss. Questo Putin voleva far sapere al mondo con la campagna georgiana. Di questo abbiamo preso atto nella “Vecchia Europa”. Ma in America?

mercoledì 20 agosto 2008

Saldi Unico Campania, biglietti venduti al 50%


Cosa non si riesce a vedere a Napoli! L'ultima, deprimente attività imbandita da alcuni individui di Piscinola è quella di rivendere all'entrata della metropolitana biglietti già obliterati ma ancora validi.
Questi novelli imprenditori del trasporto pubblico si piazzano presso i varchi di accesso alle stazioni metropolitane (in particolare sono stati avvistati alla stazione di Piscinola, a Scampia) e con metodi più o meno urbani si fanno dare i biglietti appena timbrati dalle persone che scendono dal treno.
Poco dopo li rivendono per la metà del costo ufficiale a chi si appresta a salire in metrò. Il biglietto unico Campania per trasporti cittadini costa 1,10 euro. Da queste persone può essere comprato a 50 centesimi. Anche se i biglietti sono già timbrati, molte persone preferiscono comprarli, consapevoli del fatto che riusciranno a terminare la propria corsa entro la scadenza del titolo di viaggio.
Rabbrividisco ancora una volta di fronte alla capacità dei miei concittadini di trovare sempre nuovi modi di delinquere.

I Giornalisti

Dal Blog La Nostra Cina, di Fabio Cavalera

Parliamo un attimo di noi giornalisti. La cerimonia d'inaugurazione è stata bellissima. Forse, per una volta, più bella dal vivo che non in televisione. Purtoppo mi è capitato di leggere sui quotidiani italiani commenti fuori luogo, conditi da errori e banalità.

Era da mettere in conto. Io sono il primo a sbagliare. E soprattutto sono il primo a criticare la Cina, o meglio il suo regime. Ma di fronte a certe affermazione, che ho visto pubblicate, resto sconcertato. E' come se continuassimo a non volere capire e a volere impartire lezioni. E invece dovremmo prenderne di lezioni. Ieri sera, alla cerimonia, la Cina ci ha insegnato come si possono raccontare tante cose - e mandare tanti messagi - con garbo e con intelligenza. Certo, i diritti umani. Certo il Tibet. Certo i dissidenti e la democrazia. Non cambio idea su nulla. Però non è con l'ignoranza che si difendono i nostri valori occidentali più alti.

Alcuni hanno scritto che la Cina è deserta. Non ci sono turisti. Non è vero. Hanno scritto che Tiananmen era vuota. Non è vero, era piena di gente per vedere le riprese. E poi, come al solito...l'odore d' aglio...l'antipatia...e cose del genere.

Ripeto, sono il primo a non comprendere la sottigliezza e la profondità della cultura cinese. Sono il primo ad essere severo (fin troppo mi accusano) spesso. Però ho l'impressione che l'Italia, che spedisce Manuela Di Centa (!!!!) a rappresentarla in tribuna autorità (che disastro), continui a sbagliare. E' colpa nostra. Di noi giornalisti. troppo presuntuosi e poco aggiornati.

martedì 19 agosto 2008

A Novembre il primo cellulare Android

Via PCWorld

Il primo cellulare Android in arrivo a novembre

Il cellulare Dream di HTC con software Android di Google dovrebbe essere disponibile dal 10 novembre: lo rivelano i documenti dell'FCC

a cura di Alfredo Distefano
I documenti rilasciati dall'ente americano U.S. Federal Communications Commission (FCC) sembrano indicare che il primo cellulare Android arriverà sul mercato statunitense a novembre. L'FCC ha infatti approvato la vendita del telefonino Dream di HTC, un dispositivo che dovrebbe diventare il primo cellulare a utilizzare l'atteso software Android di Google, basato su Linux.
HTC ha chiesto all'FCC di mantenere confidenziali alcune parti della sua documentazione, incluse le foto e il manuale utente, fino al 10 novembre, data che quindi si presume sia quella del lancio sul mercato del nuovo cellulare di HTC.

Google e HTC non hanno confermato che il telefonino Dream utilizzi Android e i documenti accessibili al pubblico dell'FCC non rivelano il software utilizzato, ma è da mesi che su Internet si dà per scontato che il Dream utilizzi Android, completo di funzionalità fotografiche e video. I documenti della FCC contengono alcune informazioni sui risultati dei test tecnici sull'emissione in radio frequenza e rivelano solo alcuni dettagli secondari. Ad esempio, il telefonino Dream includerà Wi-Fi, una fotocamera e un'interfaccia Bluetooth, e funzionerà su reti 3G. Conterrà anche una "jog ball", una sorta di piccola trackball per controllare il puntatore sullo schermo. I documenti fanno riferimento anche a uno "slider", il che potrebbe indicare che il telefonino conterrà una tastiera a scomparsa, come avviene su diversi modelli di cellulari e smartphone HTC.

Gli appassionati di telefonia mobile stanno attendendo con impazienza l'arrivo dei cellulari Android, che potrebbero diventare gli antagonisti dell'Apple iPhone e sfidare i colossi della telefonia come Nokia che sono da anni sul mercato. Nonostante le voci di un ritardo nel lancio di Android, Google afferma che lo sviluppo del software prosegue regolarmente e che i primi telefonini saranno disponibili entro la fine di quest'anno. Al consorzio di Android partecipano Sprint Nextel e T-Mobile e alcuni osservatori prevedono che T-Mobile sarà il primo operatore a offrire cellulari Android ai suoi utenti. Entrambi gli operatori vendono attualmente telefonini di HTC.

Street View nel nuo celllulare Google-HTC, straordinario

mercoledì 13 agosto 2008

Il biscotto olimpico. Italia Camerun 0-0

Italia e Camerun danno vita al famoso biscotto bianco e nero, simbolo della convivenza inter-razziale, non certo dello spirito olimpico. Onore all'Olanda che insegnò ma non all'Italia che non imparò.

martedì 12 agosto 2008

Mixi, Facebook e la serietà del social networking giapponese


Molto si è scritto in questi giorni sul fallimento strategico di Facebook e MySpace in Giappone. Gira un'opinione diffusa che il motivo stia nel fatto che il modo occidentale di fare social network sia troppo faceto e ludico per adeguarsi alla serietà del mondo comunicativo nipponico. Ho dato uno sguardo alla pagina tradotta (da Google) di Mixi, la piattaforma di social network che sta sfondando in Giappone. Giudicate voi, ma non ci vedo tutto questa gravida serietà:

http://translate.google.it/translate?hl=it&sl=ja&u=http://mixi.jp/&sa=X&oi=translate&resnum=1&ct=result&prev=/search%3Fq%3Dmixi%26hl%3Dit%26rlz%3D1B3GGIC_itIT261IT261%26pwst%3D1

lunedì 11 agosto 2008

Galliani: "Brava Vezzali anche se Interista"................inorridisco!!

Dopo l'impresa di Valentina Vezzali, la quale, tanto per intenderci, è una delle dieci più imprtanti dello sport di tutti i tempi, arriva una delle frasi più idiote di tutti i tempi. Galliani, Dg del Milan Calcio, telefona a Petrucci e dice: "Di fronte ad un'impresa del genere passa tutto in secondo piano, anche l'appartenenza alla tifoseria nerazzurra di Valentina Vezzali"
Allora, trattenendo i conati di vomito, cerco di scrivere qualcosa:
1) chissenefrega che il Milan, nella persona del signor Galliani chiama Petrucci per fare i complimenti alla Vezzali? traduco: perchè devo trovarmi questa notizia tra le prime sul sito di RaiSport? Avesse chiamato Giorgio Napolitano, potrei capire.
2) perchè mai il calcio deve sempre entrare a gamba tesa in tutti gli altri sport anche nel periodo olimpico? Secondo Galliani il fatto che Vezzali tifi Inter potrebbe essere una discriminante sul gioire per la sua impresa. C'è bisogno di precisare il contrario? dicendo che il tifo per una misera quadra di club passa in secondo piano di fronte a tre ori consecutivi Galliani dice un'ovvietà di primo piano, come se avesse detto: "Siamo molto più scarsi di Inter e Roma" o "l'acqua caldissima scotta e fa male"
3) Giornalisti! vi prego! ignorate queste stupidaggini in certi casi!!!

martedì 5 agosto 2008

Regola corrente del giornalismo sportivo italiano

Pronunciare la parola "Mourinho" almeno ogni venti, in barba all'evento olimpico, anche per piccole scaramucce con Ranieri.