giovedì 21 agosto 2008

Il solito grande Severgnini su Mao ai tempi nostri

Musical maoista al confine della città dei giochi - Corriere della Sera.
Hongse Jindian vuol dire “libretto rosso”. Nome impeccabile, per un musical maoista a Pechino. Mentre andiamo verso est, tagliando le circonvallazioni, immagino un ristorante per turisti, segnalato dagli sponsor olimpici, pieno dei soliti delegati carburati a birra Yangjing, con l’immancabile network americano che riprende la scena: il rosso, in Tv, funziona. Niente di tutto ciò. Questi fanno sul serio.

Il locale si trova oltre il quinto anello, ai bordi di una città simile a quella che avevo conosciuto vent’anni fa: la metropoli che si sfrangia nei campi, case nel verde impolverato, uomini che fumano in canottiera, bambini in bicicletta, barberie con le luci al neon, piccoli negozi e grandi depositi. Il "Libretto rosso" è nascosto in una strada a fondo chiuso. L’ingresso è attraverso una stella rossa.

Dentro, un avvertimento - niente foto, niente riprese - e dipinti rivoluzionari: la solita ragazza con le trecce davanti alla Porta della Pace Celeste; i ritratti di Marx, Engels, Stalin e Lenin; Mao Dsedong di fianco a una bandiera. La sala è unica, con una balconata intorno; in fondo un palcoscenico, dove ragazzi e ragazze vestiti da Guardie Rosse intonano Ge Chang Mao Zhuxi (“Cantiamo il presidente Mao”). La gente, euforica, smette di mangiare e canta con loro. Perfino Adele Lobasso, che vive a Pechino e ha avuto l'idea di venir qui, sembra sorpresa. Luisa Prudentino, che studia in cinema cinese, è divertita. “Tutti maoisti?”, chiedo a Zhang Na, la collega cinese che ci ha seguito fin qui. “Ma no, erano le canzoni che cantavamo all’asilo.”
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Affronto il “cibo collettivo” comparso sul tavolo, e penso a come si diverte la storia: Mao, condannato dalla politica, è stato salvato dall’estetica. Deng Xiaoping negli anni ‘70 ha denunciato la follia della Rivoluzione Culturale, e la Cina di oggi è figlia di quella svolta. Ma Deng è un nome, Mao è un marchio. Il ritratto del Grande Timoniere sfida il tempo e i turisti in piazza Tiananmen; cartoline e spille sono dovunque. L’iconografia del maoismo regge la sfida del secolo nuovo. C’è qualcosa d’impeccabile, stasera, nelle piccole cameriere rosse che servono il temibile hu bing, pizza tradizionale coperta di germogli di aglio.

Al nostro tavolo è addetta Wang Xiao. Viene dal Hebei, la regione intorno a Pechino. Dice d’avere 17 anni, ne dimostra meno. Sorride, abbassa gli occhi. Ma ogni tanto si trasforma. Interrompe il servizio e partecipa alla coreografia: sale su una sedia e scandisce slogan rivoluzionari. Nella confusione, riprendiamo qualche scena. Un cameriere se n’accorge e prova ad arrabbiarsi; ma basta far sparire la macchina, e ributtarsi sul “brasato di carne alla Mao".
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Un cliente cinese sale sul palco, e chiede di cantare una canzone popolare “per la gloria della nazione impegnata nelle Olimpiadi”. Dopo il musical, il karaoke. Vorrei domandare: “Mao l’avrebbe consentito?”. Ma non c’è tempo. Le tovaglie rosse si alzano come bandiere, ed è tempo di tornare nella città dei Giochi.

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